Riprendo una notizia un po’ particolare che ho trovato qualche tempo fa su un quotidiano e che mi ha fatto molto riflettere.
In Giappone è stato creato “Il telefono del vento”, nella lingua originale: “Kaze no Denwa”. Si tratta di una cabina telefonica bianca che il signor Itaru Sasaki ha collocata nel suo giardino. Costui l’ha realizzata per continuare a parlare con il cugino, che era morto prematuramente e con il quale aveva costruito un rapporto di grande e profonda amicizia. Dopo circa un anno dalla posa della cabina, Sasaki l’ha messa a disposizione di chiunque chiedesse di utilizzarla a motivo dei lutti causati dal terremoto e dallo tsunami.
Attraverso il vetro della cabina, che è collocata su di una collina, si può ammirare il paesaggio nei pressi della città di Otsuchi, sentire il rumore del vento ed anche l’odore che sale dall’Oceano Pacifico sottostante. Chi entra nella postazione compone un numero girando il disco di un apparecchio telefonico nero, accanto al quale ci sono anche carta e penna per lasciare qualcosa di scritto; quindi può mettersi a parlare ad alta voce, oppure rimanere in silenzio.
Questo “Telefono del vento, sussurri alle famiglie perdute” è meta di numerosi visitatori e ha ispirato un documentario della tv giapponese, dei libri di successo ed anche un film dal titolo “Phone of the wind”.
Ma bisogna aggiungere che la cabina del Paese del Sol Levante ha un suo omologo in Italia, precisamente in Liguria presso il Rifugio Pratorotondo, nel Comune di Cogoleto. Radio Deejay si è fatta promotrice di una raccolta di oltre 1.500 messaggi lasciati da coloro che si sono recati in questo luogo e li ha trasmessi per circa quattro ore!
Si tratta di messaggi anonimi, di parole semplici e piene di affetto, di ricordi di vita quotidiana per le persone amate che hanno concluso il loro cammino terreno e da cui non si aspettano risposte: nonni, genitori, parenti ed amici.
Ecco una nipote che si rivolge alla nonna: “Ciao nonna, ho avuto una figlia che si chiama come te, Caterina”. E ancora il figlio che parla al padre: “Ciao papà, hai visto che alla fine sono riuscito a sposarmi anch’io e a formare la mia famiglia?”. C’è anche la figlia che si confida con la madre: “Ciao mamma, mi manchi tanto!”. Ma anche la nipote che esterna il suo pensiero all’amata zia: “Qui tutto bene, io sto aspettando un bambino, avrei tanto voglia delle tue lasagne e del tuo cotechino!”.
Se da una parte in questi e altri simili messaggi emerge la consapevolezza che la persona interpellata non c’è più, che il telefono nero non risponde ma registra soltanto le voci di chi parla; dall’altra parte c’è il desiderio impellente di comunicare con chi non c’è più, di non ricacciare in gola parole che vengono dal profondo del cuore. “Il telefono del vento – spiega il sito giapponese della cabina bianca – è il luogo della ‘preghiera’, ma non è connesso a nessuna religione”.
La parola “preghiera” è appunto tra virgolette ed esprime tutta la contraddizione di domande che non hanno un interlocutore, che non si rivolgono a nessuno, che sono lanciate nel nulla da un telefono che non è tale!
Forse niente meglio di questa cabina bianca, isolata dal mondo e nella quale si entra in perfetta solitudine uno alla volta, può essere un’icona della religione senza Dio, che trova sempre più spazio in questa nostra società post moderna.
Abbiamo perso la speranza che sta all’origine di ogni preghiera: la consapevolezza che, invece, ci sia un Dio ad ascoltarci “dall’altra parte”, pronto a risponderci in ogni momento.
Inconsciamente la cabina bianca e il telefono nero in cima alla collina ci servono: sappiamo sì che nessuno può risponderci; ma non siamo fatti per finire nel nulla ed allora, forse senza ammetterlo, cerchiamo in qualche modo di intercettare la voce di Dio.
Ma la fede cristiana è in grado di fornirci un “telefono” dal quale “qualcuno” risponde, fa udire la sua voce e nella preghiera questa risposta la possiamo udire ogni giorno!