In una recente intervista mons. Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova Evangelizzazione e teologo affermato, si è espresso così in merito alla pandemia dovuta al Covid 19: “Porto sulla mia pelle il fatto di essere nato a Codogno. In un anno tante persone a me care sono morte: amici, conoscenti, sacerdoti. L’immagine storica dei camion militari carichi di bare a Bergamo, segna l’inizio della consapevolezza di qualcosa che avrebbe modificato l’umanità intera, non solo l’Italia e l’Europa; segna l’inizio di una stagione nuova alla quale l’umanità da sola non poteva farvi fronte immediatamente”.
A queste commosse parole del presule, associo l’immagine – che credo sia rimasta scolpita nella mente di tutti – di Papa Francesco il 27 marzo dello scorso anno, tutto solo in una Piazza San Pietro piovosa. A dire di un’umanità smarrita, alla ricerca di senso e di luce. Forse mai come in quei mesi segnati dall’espandersi del coronavirus – chiusi nelle nostre case, senza rapporti interpersonali con persone vicine e amate, con la consapevolezza delle morti che si allungavano senza poter dare nemmeno un saluto – ci siamo scoperti ad alzare gli occhi al cielo!
Ci siamo trovati di fronte ad un fenomeno inedito e significativo per la cultura del nostro tempo: abbiamo toccato con mano l’inizio della post modernità. Ciò che è accaduto rivela che è finita l’epoca moderna e non sappiamo ancora come sarà il futuro.
Davanti a questi fatti l’illusione che tutto sia così bello, come ci è stato presentato negli ultimi decenni, unita a quella che fa ritenere che l’uomo da solo è in grado di gestire la sua vita, ora ci ha fatto scoprire che non è proprio così!
Ricordiamo ciò che in quella sera buia ha detto il Papa, richiamando l’immagine della barca in mezzo alla tempesta e le parole di Gesù ai suoi discepoli spaventati: “Perché avete paura? Non avete ancora fede?”. Il Pontefice ha così precisato che il dramma non è una tragedia: nella tragedia non c’è mai speranza, nel dramma invece sì.
Possiamo dire che tante cose ha insegnato questo male, sia a chi crede ed anche a chi non crede. Ha svelato la grandezza della scienza, ma anche i suoi limiti; ha fatto riflettere su quali siano i valori che contano e che non sono di certo né il potere né il denaro; ha costretto a ripensare lo stare tanto insieme in famiglia, con le sue gioie e le sue fatiche; ha portato a scoprire ciò che è davvero essenziale, oltre il superfluo che molte volte oscura i nostri occhi; ed infine ha messo davanti la grande realtà della morte, che è entrata di prepotenza nella nostra vita quotidiana, sbriciolando così tanti nostri tabù.
C’è un vocabolo che oggi viene richiamato spesso e che, se ben compreso, può far sperare in una ripresa in pienezza della vita personale e comunitaria: è la parola “resilienza”. Deriva dal termine latino resilire e significa rimbalzare, come ad esempio succede per i metalli che sono in grado di assorbire un urto senza rompersi. In ambito psicologico si intende quella capacità di rielaborare il dolore, il lutto, il trauma superandoli, ricostruendo e sviluppando nuove energie interiori.
Per i credenti, alla capacità umana di resilienza si associano le due virtù teologali della fede e della speranza: sono esse che permettono di non disperare davanti alle prove e offrono la certezza che Dio non abbandona nelle difficoltà.
“Nella Bibbia – afferma il Card. Gianfranco Ravasi – per 365 volte risuona questo saluto divino: ‘Non aver paura!’. È quasi il ‘buongiorno’ che Dio ripete ogni alba. Lo ripete idealmente a tutti anche in questo periodo così arduo”.
Perciò auguro una buona “resilienza” (e non solo…) a tutti voi lettori!