C’era una volta un piccolo e ridente paesino sulle rive del fiume Ticino. Questo paesino era un agglomerato di case intorno alla chiesa, immerso nel verde, a circa 6 km dal capoluogo. Qui si trovava quasi tutto: il prestinaio, il tabaccaio, il giornalaio, la merceria, il fruttivendolo, qualche bottega di alimentari, il circolo cooperativa dove vendevano il vino, la parrucchiera, il barbiere... Si poteva persino comperare il pesce fresco che qualche pescatore locale pescava nel fiume: lucci, cavedani, alborelle, talvolta anche qualche anguilla. Esistevano persino l’asilo e la scuola elementare. Le medie erano nel capoluogo e, per arrivarci, si doveva prendere la corriera guidata dal Sig. Camillo. Il parroco si chiamava Don Vittorio e si occupava oltre che delle anime, anche dell’oratorio, insieme alla sua perpetua signorina Teresa e alla suore dell’ordine di S.Maria di Loreto. L’oratorio era diviso in maschile e femminile. Vi era proprio un muro di separazione tra i due ambienti e anche tra oratorio e giardino parrocchiale, giardino misterioso, ricco di alberi da frutto ma inaccessibile ai più. La vita procedeva tranquilla; quasi tutti avevano un’occupazione: gli adulti lavoravano presso qualche azienda della zona, qualcuno si spingeva fino a Milano. I ragazzi andavano a scuola e al rientro qualche compito, la cena e via a letto. Chi poteva permettersi la tv riusciva persino a vedere Carosello. La domenica si andava alla messa e poi nel pomeriggio tutti all’oratorio. Talvolta don Vittorio proiettava il “cinema”, ma attenzione a non stare troppo vicini o a fare chiasso: lui passava quatto quatto con una pila a controllare e chi veniva sorpreso a combinare qualche marachella veniva preso per un orecchio e mandato via, se non addirittura accompagnato a casa dai genitori, dove lì lo attendeva una bella ramanzina o castigo! Ricordo ancora quella volta quando, ormai adolescente, indossai la mia prima minigonna (per la verità era leggermente sopra il ginocchio): arrivò come un lampo da mia madre per far notare l’inadeguatezza di un simile abbigliamento! Per noi ragazze l’oratorio significava andare negli ambienti della scuola materna, gestita dalle suore. Immancabile era la partita di palla mondiale, l’altalena e, per le più grandi, era possibile ascoltare le canzoni con i dischi di vinile 45 giri e talvolta ti concedevano persino di ballare, ma di stare con i ragazzi, quello no, proprio era proibito! In realtà noi ragazze andavamo a spiare i maschi attraverso uno sportellino nel muro divisorio ma di nascosto, altrimenti erano rimproveri. All’uscita poi ci si attardava un poco in strada, nella speranza di vedere uscire qualche simpatia e poi di corsa a casa perché i genitori misuravano il tempo!

Arrivarono gli anni ’70. Io ero nel pieno dell’adolescenza. Cambiarono un sacco di cose. Arrivarono anche in questo paesino i primi sentori di una rivoluzione culturale in atto. Tutto era in fermento; fuori qualcosa stava cambiando, lotte sindacali, femminismo, costumi…

Cambiò il prete. A don Vittorio successe don Michele e fu un ciclone che ribaltò il quieto vivere di Coarezza. Per prima cosa vennero abbattuti diversi muri, tra cui quello divisorio tra oratorio maschile e femminile e giardino del prete. Si cominciò a discutere intorno a parole come “condivisione”, “partecipazione”, “corresponsabilità”, “democrazia”. Presto la casa parrocchiale divenne un luogo di incontro e confronto tra giovani e adulti su molti temi. Pensate un po’: si diceva perfino che un autentico Cristiano non poteva prescindere da questo se voleva crescere nella fede! Non erano tanto importanti i riti e le formalità bensì la vera sostanza; il vero fulcro di tutto il Cristianesimo era l’amore per gli altri, per la natura, per la giustizia sociale, era la ricerca sempre e comunque della non violenza, del dialogo, della pace. Si vociferava persino che i figli non sono solo dei genitori, ma di tutta la comunità e che tutti insieme bisognava crescere ed educarci a vicenda!
Roba da matti! Il paese era sconvolto!

“Vabbè, se è così, proviamo a metterci in gioco” fu la risposta degli abitanti.

Nacquero, un po’ timidamente i primi consigli/commissioni parrocchiali, gruppi di catechisti, gruppi missionari e tutti cercarono di capire e applicare queste idee innovative. Neanche il tempo di rendersi conto di cosa si potesse trattare, che tutti erano operativi in campo, sovente soli a decidere quale strada intraprendere. La nostra guida infatti, ci supervisionava da lontano in quanto chiamato a dirigere ben più importanti e problematiche realtà. Ricordo che alcuni adulti, dopo il lavoro e al sabato si diedero da fare per costruire una tettoia al campo sportivo in fondo al paese; qualcuno poi collaborò per rifare il salone dell’oratorio e costruire una tribuna per meglio poter assistere agli spettacoli teatrali; i ragazzi adolescenti aiutati dai più grandi, imbiancarono la mitica saletta rossa che poi divenne azzurra, rosa… usata come sala giochi e come sede di riunioni per ragazzi e adulti; qualcuno si prodigò per risistemare gli impianti della luce. Insomma, si incominciava così a percepire il significato della partecipazione, del sentire gli spazi comuni come a servizio di tutti. Da quel periodo in poi si costituirono anche diverse associazioni ( Pro Loco, Sportiva, Ciclistica…) che, con finalità diverse, provarono a collaborare per il bene di molti.

Si organizzarono i primi “parchi vacanza” durante l’estate, gestiti da responsabili laici e coadiuvati da animatori adolescenti (io ero fra questi). Che bel divertimento! Tantissimi partecipanti, nessuno escluso, ciascuno portatore di diverse abilità e diverse problematiche! Venivano a Coarezza persino alcuni ragazzi di Somma, Golasecca, Gallarate che qui trovavano accoglienza (si sono ben fidati!).

Nel ’73, complice l’austerity dovuta alla crisi petrolifera, nessuno più poteva circolare con automezzi il sabato sera e la domenica. Quale migliore occasione per incontrarsi nella casa parrocchiale, parlare, cantare, discutere di tanti argomenti, cucinare e condividere un piatto di pasta tutti insieme! Quanti visi nuovi circolavano, quanti discorsi , a volte anche un po’ astrusi, che noi più giovani non capivamo. Era comunque bello stare insieme! Sapete, non esistevano ancora i telefonini, c’era una cabina telefonica in piazza. Un bel giorno ci vennero presentati dei ragazzi/artisti che arrivavano nientemeno che dal Cile. Erano rifugiati che scappavano dal loro paese perché c’era stato un colpo di stato ed erano perseguitati da un regime dittatoriale. Con loro ci furono degli incontri e ci venne proposto di conoscere l’arte dei murales, la pittura di strada. Cosi ben presto alcuni muri dell’oratorio e della chiesa di San Rocco, si colorarono con disegni, messaggi di protesta, denuncia ma anche di pace. Questo però fu un po’ eccessivo: i nostri genitori non approvarono e si levarono delle urla di protesta! Per fortuna però, quando c’era la malparata, avevamo sempre il nostro Don che interveniva e provava a rimettere al centro di tutto il dialogo talvolta, a onor del vero, con qualche difficoltà. Come in tutte le famiglie, succedevano anche delle belle e colorite litigate ma alla fine tutto si appianava: qualcuno se ne andava sbattendo la porta e dopo un po’ ritornava.

Eh bel periodo questo, ricco, fecondo; eravamo un po’ tutti alla ricerca di qualcosa o qualcuno in cui credere. Una grossa mano ci venne offerta dai seminaristi comboniani che ogni anno affiancavano le attività parrocchiali. Incontri di preghiera, canti e preparazione per le messe, ma anche raccolta della carta pro-missioni, passeggiate nei boschi, partite a palle di neve…

Passarono gli anni. Gli entusiasmi e il fermento di un tempo cominciarono a scemare.

I bimbi crescono, le mamme imbiancano…le cose cambiano. Chi si è sposato, chi ha intrapreso carriere altrove; il paesello ha subito un po’ di mutilazioni. La scuola elementare ha chiuso per mancanza di bambini; molti negozi sono scomparsi, così pure i lucci, le alborelle e le anguille, i nostri vecchi e tutti i personaggi tipici del luogo e con loro molti ricordi sono andati dileguandosi. In un battibaleno ci siamo scoperti soli, orfani di guide, ma con un carico di responsabilità sulle spalle verso i nostri figli e un impegno ad essere coerenti nel mettere in pratica i nostri sogni e le nostre speranze di un tempo.

Molti erano i vuoti da colmare, a partire da quello educativo nei confronti delle nuove leve a cui appartenevano i nostri figli. Che fare? Allora come un tempo la parola d’ordine è stata “l’unione fa la forza, i figli non sono solo i nostri, la comunità tutta deve dire mi interessa”.

Un gruppo di donne, mamme, zie, sorelle maggiori, qualche papà e Don Michele costituì l’associazione Laboratorio Sociale. Correva l’anno 1998. Con questo gruppo di persone vennero organizzate diverse iniziative tra cui il centro estivo negli ambienti parrocchiali e della scuola materna, corsi di psicomotricità per i più piccoli, iniziative ricreative e ludiche nel tempo libero dalla scuola, percorsi di prevenzione per adolescenti etc. Le nostre finalità erano educative, laiche, volte anche a prevenire il disagio sociale e l’emarginazione dei ragazzi tutti, dalla materna alle medie, senza distinzione di nazionalità, religione e ricchezza. Il principio che ci guidava era “meglio dentro che fuori”, l’inclusione e non l’esclusione, anche di fronte a gesti e comportamenti riprovevoli. Ricevemmo per anni un contributo dal Comune e, tra merende, gite, panini riuscimmo a sostenerci economicamente e a reinvestire i nostri piccoli risparmi in attrezzature per l’oratorio come per esempio il videoproiettore, il telo avvolgibile, le panchine e per finire sostenendo un progetto Fom per un futuro educatore. Come ben puoi immaginare, non poche furono le difficoltà, soprattutto riguardanti la partecipazione degli adulti nell’organizzazione delle varie iniziative e nella ricerca di soluzioni ai problemi che mano mano insorgevano. Tante le generazioni di bambini che si sono succedute, nella logica che i più grandi curano i più piccoli e ne sono la guida e l’esempio, così come lo sono, o dovrebbero esserlo, gli adulti.

Questo è servito anche a me, come persona, come donna e come mamma; mi sono sentita meno sola; ho trovato molte amiche che mi hanno e ci siamo sostenute a vicenda.

Ma , sempre per la legge del tempo che passa, dopo sedici anni di onorato servizio, le mamme, nonne, zie, ma soprattutto donne, hanno avuto voglia di fare altro e di lasciare alle nuove leve il timone di comando.

Quale momento migliore che l’avvicendamento del parroco e la nascita della Comunità Pastorale? Don Michele dopo 40 anni se ne è andato ed è subentrato Don Franco. Coarezza ha scoperto così di essere parte integrante di questa Comunità Pastorale.

Che bello, la comunità si allarga, conoscere altre persone, nuove forze possono subentrare e portare nuova linfa!

Certo che per chi ha creduto e lavorato secondo determinati schemi e principi, il cambiamento è stato forte. È stata tanta la paura di lasciare ad altri la “nostra creatura”. Don Franco ci ha capito e ci siamo aiutati a vicenda in questo passaggio.

Da qui inizia un’altra storia.

Ti chiederai perché ti scrivo queste righe. Innanzitutto lo scrivo per me e per le mie amiche/amici compagni di vita e di percorso, per non dimenticare questo passato se pur recente. In secondo luogo perché il mio paese sta cambiando: visi nuovi, bambini nuovi, sacerdoti, sindaci, amministratori che si alternano. Molte volte non si conoscono nemmeno i nomi dei vicini di casa.

Mi sono resa conto che dalla non conoscenza talvolta nascono incomprensioni e pregiudizi che certo ostacolano il dialogo e la ricerca di nuove soluzioni per il bene comune. Questo non lo voglio assolutamente proprio perché va contro ai sogni per cui noi ragazzi ribelli abbiamo a nostro modo combattuto.


Rita Michelini

 

Foto di Andrea Perotti - Coarezza, Panorama